DALLA PAROLA “CIELO”
Una sera mi alzai dalla
mia sedia di spettatore nascosto e silenzioso
e mi venne voglia di
parlare, di far fuoriuscire la mia voce che non avevo mai bene
ascoltato.
Ero in preda ad uno stato
mentale che si estendeva sempre di più dal cuore al palcoscenico del
mio lucido delirio.
Si, sembrava tutto un
teatro, il mondo con i suoi burattini e burattinai, i posti in prima
fila e quelli più lontani e marginali; tutto un teatro con le
scenografie, le quinte nascoste, i copioni, i suggeritori, i
protagonisti, gli antagonisti, le comparse e i personaggi minori;
volevo per una volta non restarne fuori, volevo dire la mia opinione
creduta giusta, dire le mie ragioni senza chiedere il permesso, senza
sentirmi con la libertà sottratta. Ero forse diventata matta?
Più volte mi hanno detto
che so ascoltare, ma non volevo più soltanto ascoltare le ragioni
degli altri, volevo portare il pubblico davanti alla propria anima,
cominciando a richiamare le persone verso un orizzonte dimenticato,
volevo parlare dell'amore e del dolore con le mie parole, spezzando
le catene di regole imposte, ricordando di avere, anche solo per un
momento, un paio d'ali stanche, ma pur sempre un paio d'ali per i
sogni.
Quella sera mi alzai
dalla sedia anonima del mondo per pronunciare la parola”cielo”,
mi tremavano le mani, l'imbarazzo saliva, ma non riuscivo a frenare
il desiderio di parlare e continuare a liberare una visione che mi si
presentava davanti.
Era come se la mia voce
uscisse da dietro le quinte per essere sentita dal pubblico
anestetizzato, dovevo continuare a dire “cielo” per far
comprendere il suo significato.
“Cielo” dissi una
seconda volta e risuonò più forte anche dentro il mio petto.
“Pieno” fu la seconda
parola e continuai dicendo “Il cielo è ciò che rende un uomo
pieno, libero con i suoi sogni, libero di essere, pieno nel suo
essere”.
Il pubblico non era
preparato a questo tipo di frasi, i monologhi non sempre vengono
seguiti, soprattutto se non vengono declamati dal palcoscenico,ma
d'improvviso dal pubblico non illuminato, una voce mi rispose con la
parola”Oro” ed io dissi:”Non vi è oro senza cielo, il cielo è
l'oro per i sognatori”. Un'altra voce sussurrò: ”Fatica” ed io
aggiunsi:” Il cielo conosce la fatica, poiché anche per sognare ci
vuole fatica, bisogna rubare uno spazio alla realtà per far fruire i
sogni, bisogna chiudere a chiave i tormenti e costruirsi uno spazio
ed un tempo per sentirsi bene, per sentirsi meglio, per abbandonarsi
sulle terre docili dell'inconscio, ma anche lì si trovano le
incognite e bisogna stare attenti. Attenti ai propri mostri, ai
propri percorsi, alle proprie convinzioni, attenti a come serviamo la
vita e l'amore”.
Il silenzio si fece più
lungo e pesante,ma arrivò un battito di mani dalle ultime file, mi
sembrò di essere fuori dal mio corpo.
Dalla parola”Cielo”
riuscii a dire un qualcosa che non era preparato, un qualcosa in cui
credevo e che non avrei espresso a parole a nessuno prima.
Ero stata coraggiosa o
semplicemente fuori di testa?
Ero una persona inibita e
sottomessa dalla massa, che ora aveva ritagliato un posto all'aria
aperta, che respirava nella sua verità, che, nonostante l'ansia e
l'imbarazzo, cercava di vivere a testa alta, con le mani tra i petali
di un fiore e nel marrone del fango, con ali di cartone attaccate
addosso per sentirsi viva e vulnerabile alla vita, alla poesia
ancestrale, all'amore, come sempre.
Non pretendevo tutta la
condivisione del pubblico, mi bastò il risveglio di quel frammento
di platea che, con ardore, m'infiammò l'anima.
Era una sera in cui,
tornando a casa, decisi di tornare a guardare le stelle anche fuori
di me e sentire il vento sopra la mia pelle, questa pelle che ha
sentito tanto. Decisi di tornare a parlare, anche dagli angoli più
remoti, perché troppo silenzio viene frainteso, troppo silenzio può
far chiudere porte che, invece, si vuol lasciare aperte.
Quella sera allo specchio
mi guardai negli occhi, io che sfuggivo al mio riflesso.
Creato in una tarda
sera di un Aprile in quarantena, anno 2020.
Gabriella Stigliano