sabato 25 aprile 2020

Un mio racconto/monologo creato in questa quarantena

DALLA PAROLA “CIELO”

Una sera mi alzai dalla mia sedia di spettatore nascosto e silenzioso
e mi venne voglia di parlare, di far fuoriuscire la mia voce che non avevo mai bene ascoltato.
Ero in preda ad uno stato mentale che si estendeva sempre di più dal cuore al palcoscenico del mio lucido delirio.
Si, sembrava tutto un teatro, il mondo con i suoi burattini e burattinai, i posti in prima fila e quelli più lontani e marginali; tutto un teatro con le scenografie, le quinte nascoste, i copioni, i suggeritori, i protagonisti, gli antagonisti, le comparse e i personaggi minori; volevo per una volta non restarne fuori, volevo dire la mia opinione creduta giusta, dire le mie ragioni senza chiedere il permesso, senza sentirmi con la libertà sottratta. Ero forse diventata matta?
Più volte mi hanno detto che so ascoltare, ma non volevo più soltanto ascoltare le ragioni degli altri, volevo portare il pubblico davanti alla propria anima, cominciando a richiamare le persone verso un orizzonte dimenticato, volevo parlare dell'amore e del dolore con le mie parole, spezzando le catene di regole imposte, ricordando di avere, anche solo per un momento, un paio d'ali stanche, ma pur sempre un paio d'ali per i sogni.
Quella sera mi alzai dalla sedia anonima del mondo per pronunciare la parola”cielo”, mi tremavano le mani, l'imbarazzo saliva, ma non riuscivo a frenare il desiderio di parlare e continuare a liberare una visione che mi si presentava davanti.
Era come se la mia voce uscisse da dietro le quinte per essere sentita dal pubblico anestetizzato, dovevo continuare a dire “cielo” per far comprendere il suo significato.
Cielo” dissi una seconda volta e risuonò più forte anche dentro il mio petto.
Pieno” fu la seconda parola e continuai dicendo “Il cielo è ciò che rende un uomo pieno, libero con i suoi sogni, libero di essere, pieno nel suo essere”.
Il pubblico non era preparato a questo tipo di frasi, i monologhi non sempre vengono seguiti, soprattutto se non vengono declamati dal palcoscenico,ma d'improvviso dal pubblico non illuminato, una voce mi rispose con la parola”Oro” ed io dissi:”Non vi è oro senza cielo, il cielo è l'oro per i sognatori”. Un'altra voce sussurrò: ”Fatica” ed io aggiunsi:” Il cielo conosce la fatica, poiché anche per sognare ci vuole fatica, bisogna rubare uno spazio alla realtà per far fruire i sogni, bisogna chiudere a chiave i tormenti e costruirsi uno spazio ed un tempo per sentirsi bene, per sentirsi meglio, per abbandonarsi sulle terre docili dell'inconscio, ma anche lì si trovano le incognite e bisogna stare attenti. Attenti ai propri mostri, ai propri percorsi, alle proprie convinzioni, attenti a come serviamo la vita e l'amore”.
Il silenzio si fece più lungo e pesante,ma arrivò un battito di mani dalle ultime file, mi sembrò di essere fuori dal mio corpo.
Dalla parola”Cielo” riuscii a dire un qualcosa che non era preparato, un qualcosa in cui credevo e che non avrei espresso a parole a nessuno prima.
Ero stata coraggiosa o semplicemente fuori di testa?
Ero una persona inibita e sottomessa dalla massa, che ora aveva ritagliato un posto all'aria aperta, che respirava nella sua verità, che, nonostante l'ansia e l'imbarazzo, cercava di vivere a testa alta, con le mani tra i petali di un fiore e nel marrone del fango, con ali di cartone attaccate addosso per sentirsi viva e vulnerabile alla vita, alla poesia ancestrale, all'amore, come sempre.
Non pretendevo tutta la condivisione del pubblico, mi bastò il risveglio di quel frammento di platea che, con ardore, m'infiammò l'anima.
Era una sera in cui, tornando a casa, decisi di tornare a guardare le stelle anche fuori di me e sentire il vento sopra la mia pelle, questa pelle che ha sentito tanto. Decisi di tornare a parlare, anche dagli angoli più remoti, perché troppo silenzio viene frainteso, troppo silenzio può far chiudere porte che, invece, si vuol lasciare aperte.
Quella sera allo specchio mi guardai negli occhi, io che sfuggivo al mio riflesso.



Creato in una tarda sera di un Aprile in quarantena, anno 2020.


Gabriella Stigliano

giovedì 16 aprile 2020

Poesia che vaga nell'anima

SCENDONO LACRIME DAGLI ULTIMI ANGELI

Scendono lacrime
dagli ultimi angeli,
invadono i giorni,
riflettono candore nei nostri sogni,
scavano dentro
i nostri nascondigli,
trovando noi
non sempre in ascolto,
legati a un dolore remoto,
fedeli al proprio indefinito infinito,
che fatichiamo a crescere,
che ci spacchiamo il cuore
con amori che eleviamo,
con tutti i brividi
che a pelle sentiamo.
Scendono silenzi celesti
dagli ultimi angeli,
che ci mostrano strade
per tornare a casa
e noi schiudendoci lentamente
ci ritroviamo
senza più ferirci.


Gabriella Stigliano


sabato 4 aprile 2020

E' stato sempre l'amore.......


E' STATO SEMPRE L'AMORE

E' stato il silenzio
a portarmi la neve,
è stata una parola
a portarmi un dolore,
è stato uno sguardo
a farmi cadere di nuovo
in errore.
Il fuoco vive dentro
un'ossessione d'amore,
rimandando il suo disilludersi,
il suo diventare cenere.
E' stato un istante di brividi
a trattenere una poesia
nell'eterno,
è stata la sua voce
a parlarmi nel vento,
è stato sempre l'amore
a trovarmi dentro
il mio stesso pianto.


Gabriella Stigliano